Fine marzo 2023. Due note aziende della logistica e della distribuzione (i cosiddetti “corrieri”) sono state poste in amministrazione giudiziaria per caporalato e frode fiscale.
Sono anni che varie inchieste editoriali, giornalistiche, televisive ci raccontano dello sfruttamento dei lavoratori che ruota intorno alla distribuzione delle merci. Il sistema economico mondiale non esisterebbe senza la logistica: le merci, oltre ad essere prodotte, devono essere distribuite capillarmente dal produttore al cliente finale.
Le prime storture del sistema distributivo iniziano nel comparto del trasporto su gomma, laddove c’è una corsa al ribasso delle retribuzioni degli autisti di autocarri ed autoarticolati. Si sfruttano i lavoratori dell’est-Europa, con orari estenuanti e paghe più basse rispetto agli “italiani”.
La distribuzione commerciale è stata poi stravolta negli ultimi anni da varie piattaforme online, dove si può ordinare qualsiasi prodotto, “comodamente” da casa o dal proprio ufficio, saltando il negozio di vicinato o il supermercato di zona. Il cliente finale, il cosiddetto “CONSUMATORE”, si vede recapitata la merce a casa persino da persone in bicicletta o in motorino (i famosi”riders”).
Ebbene, in pochi si pongono domande su come le merci arrivino dal produttore al “consumatore”. Viviamo in un sistema economico e in un mondo entrambi malati
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Non vogliamo e non possiamo riassumere in poche righe la storia dell’economia mondiale. Partiamo dal 1990.
L’anno precedente era stato smantellato il Muro di Berlino, l’anno successivo abbiamo assistito al crollo dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. In quegli anni, il sistema economico consumista esce esausto, dopo il boom economico degli anni ’50-’60, la crisi degli anni ’70, il rimbalzo degli anni ’80, ed ha bisogno di nuove spinte per mantenersi competitivo.
Non bastava più lo sfruttamento delle materie prime del sud del mondo, allora si è pensato di trasferire gran parte del sistema produttivo europeo e nordamericano verso le nazioni dell’estremo Oriente, in particolare verso la Repubblica popolare cinese (PRC), per approfittare del basso costo della manodopera. In quel periodo la PRC, sotto la spinta dell’allora leader Deng Xiaoping, aveva deciso di lanciarsi nella grande economia mondiale, mettendo in campo centinaia di milioni di lavoratori provenienti dalle campagne, invogliati a trasferirsi, con le buone o con le cattive, verso le grandi città della costa, dove stavano sorgendo mega-fabbriche.
I cinesi misero in piedi grandi aziende, in partnership con società “occidentali”, sia per acquisire capitali che per acquisite tecnologie. In trent’anni (1990-2020) i cinesi hanno ampiamente recuperato il divario tecnologico che li separava da Europa e USA, e ora si apprestano a divenire la prima potenza economica mondiale.
Molte aziende europee e nordamericane hanno recuperato redditività trasferendo le produzioni in Oriente, ma lasciando disoccupazione e desertificazione industriale, nonché perdita di competenze difficilmente recuperabili. L’aumento della disoccupazione ha creato tensioni sui salari, che in Italia sono cresciuti poco o nulla.
Nel frattempo, in Italia, aumentava il precariato, a seguito di numerose leggi che deregolamentavano il mercato del lavoro, rendendo un miraggio il mitico “posto fisso” Le attività economiche che non potevano trasferirsi all’estero (agricoltura, pesca, commercio, servizi pubblici e privati) hanno applicato i più antichi sistemi di sfruttamento del lavoro: caporalato, cottimo, false cooperative. Le cosiddette “esternalizzazioni”.
In agricoltura i lavoratori vengono reclutati dai “caporali” giorno per giorno, settimana per settimana, a secondo delle necessità delle aziende, sfruttando in particolare lavoratori stranieri, spesso senza permesso di soggiorno, quindi più facilmente ricattabili.
Nel settore dei servizi lo sfruttamento si è manifestato in forme più sottili. Molte aziende hanno cercato di abbassare il costo del lavoro riducendo il numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato, sostituendoli con finti soci-lavoratori di false cooperative. Le false cooperative sono una piaga che sembra inestirpabile dal sistema economico italiano, perché è una piaga che fa comodo a molti. Furbi “prenditori” (da non confondere con gli imprenditori, che rischiano i loro soldi) imbastiscono società cooperative che di cooperativo non hanno proprio nulla. Il prenditore comanda, i finti soci-lavoratori sono dei semi-schiavi (se non schiavi completi), che vengono pagati con stipendi da fame, senza tutele sindacali, senza diritti, con orari estenuanti. Oltretutto le cooperative, nate nel XIX secolo con finalità mutualistiche, godono di privilegi fiscali e contributivi, che vengono abilmente sfruttati dal prenditore.
Le false cooperative sono un sistema per abbassare il costo del lavoro e per riportare l’Italia 70 anni indietro, a prima che le lotte dei lavoratori italiani negli anni ’60 del secolo scorso portassero alla approvazione dello Statuto dei lavoratori del 1970.
Per non farla troppo lunga, la cosiddetta “globalizzazione” non è stata altro che una modalità per esternalizzare e globalizzare lo sfruttamento che già veniva adottato da decenni dal sistema economico mondiale. Un modo per “strizzare” quel poco di “ciccia” che era rimasta intorno all’osso, dopo anni di consumi smodati e sfrenati.
“Abbiamo vissuto per anni al di sopra delle nostre risorse”, disse una decina di anni fa un noto politico italiano, in un raro momento di sincerità. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre risorse, ma continuiamo a farlo, per la serie “chissenefrega, la vita è corta, godiamocela, alla faccia degli altri”. In pochi sono disponibili a cambiare stile di vita.
E allora, se non vogliamo cambiare il nostro stile di vita, in modo da non spremere le risorse naturali e le risorse umane del nostro pianeta, teniamoci il riscaldamento globale (che porta siccità, scioglimento dei ghiacciai, inondazioni ed uragani), teniamoci la Grande Migrazione, teniamoci le guerre per l’acqua, per il petrolio, per il grano. Teniamoci la mancanza di prospettive, che sta portando le giovani generazioni a non fare più figli.
Qualche anno fa si parlava di “consumo critico” o “consumo consapevole”. Intanto cancelliamo dal vocabolario la parola “consumatore”; ormai è rimasto ben poco da consumare e la parola stessa è un insulto a chi straparla di “sviluppo sostenibile” o “decrescita felice/infelice”.
Come dicono da tempo alcuni economisti, dobbiamo “votare col portafoglio”. Anche se “non ci interessiamo di politica” (frase idiota, anche perché la politica si interessa sempre di noi) ogni nostro atto quotidiano è “politico”, dall’uscire di casa, all’andare al lavoro, acquistare, persino lo stare in casa:
1. in inverno, stando in casa, accendendo o spegnendo il riscaldamento domestico, facciamo un atto politico e sociale, mandiamo un messaggio al nostro fornitore di energia ed ai politici che ci governano (vedasi l’inverno appena concluso: volenti o nolenti, abbiamo risparmiato gas importato dalla Russia)
2. andando a scuola o al lavoro, e decidendo quale mezzo utilizzare, diventiamo soggetti “economici” e diciamo qualcosa a chi ci governa
3. scegliendo dove e cosa acquistare per i nostri bisogni quotidiani, decretiamo il successo o il fallimento delle aziende che producono e commercializzano beni alimentari, beni per la pulizia della persona e della casa, beni durevoli come le automobili, eccetera eccetera
4. anche l’evasore fiscale (persona asociale che campa sulle spalle della collettività), che non paga le imposte dirette, contribuisce, volente o nolente, alla fiscalità generale, attraverso l’IVA incorporata nel prezzo dei prodotti che acquista (le imposte indirette)
Ogni nostra azione, consapevole o inconsapevole (automatica, dettata dall’abitudine), genera delle ricadute ambientali, sociali, economiche e politiche. Questo ci deve entrare bene in testa. Abbiamo estremamente bisogno di cittadini che conoscono i loro diritti, ma soprattutto i loro doveri. Secoli di storia, di lotte sociali, di rivoluzioni industriali, di conquiste civili, hanno portato il nord del mondo a conoscere la democrazia.
Molti non si accorgono che in realtà le nazioni “democratiche” sono una ristretta minoranza. La maggior parte delle nazioni del mondo (a cominciare dalla seconda potenza mondiale e dalla nazione più estesa) sono delle dittature. Molte altre nazioni vengono definite “autocrazie” o “democrature” (democrazie+dittature), ma la sostanza non cambia: dittatura uguale Medioevo, laddove c’è un capo, una corte di vassalli, valvassori e valvassini e, sotto, molto sotto, un esercito di servi della gleba.
Cosa vogliamo fare del nostro futuro? Sta tutto nelle nostre mani. E’ dannoso pensare “siamo 8 miliardi di abitanti sulla Terra, io sono un singolo individuo, posso fare poco o nulla” ; ognuno di noi può fare molto, con il proprio esempio può coinvolgere amici, parenti, vicini di casa e di quartiere, colleghi di scuola o di lavoro.
Lamentarsi serve a poco o a nulla. Dobbiamo agire, ognuno nel proprio piccolo. Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà.